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Cittàmetropolitana di Torino

Giorno della Memoria

"Sono d'accordo con Dante, che i luoghi più caldi dell'inferno sono riservati a coloro che, in un periodo di crisi morale, mantengono la loro neutralità". Con questa citazione di Martin Luther King Jr, si apre il nostro numero speciale di Cronache da Palazzo Cisterna, dedicato interamente al Giorno della Memoria che per l'occasione diventa "Cronache della Memoria (pdf 3.2 MB)".

Ogni 27 gennaio, dal 2005, il mondo celebra il Giorno della Memoria. Una data per non dimenticare, indicata dalle Nazioni Unite per ricordare l'Olocausto con i milioni di morti terminati nei campi di concentramento nazisti.
Fu proprio il 27 gennaio 1945 il giorno in cui le truppe sovietiche della 60ª armata impegnate nell'offensiva Vistola-Oder in direzione della Germania entrarono ad Auschwitz e scoprirono con i loro occhi l'orrore.
In Italia la legge 211 del 2000 definisce le finalità del Giorno della Memoria, una norma che prevede tra l'altro "cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell'Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere".

In questo 2021, ancora fortemente segnato dalla pandemia causata dal Covid-19, per la prima volta non ci saranno pubbliche cerimonie e momenti di ritrovo in presenza, ma non per questo non esistono occasioni per ricordare: per questo noi di Città metropolitana abbiamo deciso di realizzare questo numero speciale del nostro settimanale proprio per non dimenticare, raccontando alcune storie speciali dei Giusti tra le Nazioni del territorio torinese.

Alcune testimonianze raccolte:
- videointervista a Dario Disegni, presidente Comunità ebraica di Torino
- videointervista a Dario Venegoni, presidente nazionale dell'Aned-Associazione ex deportati

Cosa sono i Giusti tra le Nazioni?
Esiste a Gerusalemme un luogo chiamato Yad Vashem, "un posto e un nome".
Si tratta del Memoriale dei Martiri e degli Eroi della Shoah e vi si accede attraverso il Viale dei Giusti che attraversa il Giardino dei Giusti dove ogni albero porta il nome di un uomo o di un donna che - da non ebrei - hanno aiutato e salvato vite ebraiche.
Il titolo di Giusto è stato dunque conferito a queste persone speciali nella loro umanità, generose e solidali, essere umani che non si sono tirati indietro in quel momento così drammatico per l'Europa.
Il numero più alto è rappresentato dai polacchi, gli italiani sono alcune centinaia ma ogni storia, ogni episodio, ogni gesto dei Giusti merita un posto di primo piano.

I Giusti tra le Nazioni del territorio torinese:

  • Carlo Angela

    Carlo Angela, il Giusto che salvò la vita agli ebrei di Villa Turina

    Furono molte le vite salvate dallo psichiatra Carlo Angela (1875-1949), durante i venti terribili mesi dell'occupazione tedesca, tra il settembre 1943 e l'aprile 1945. Il dottor Carlo, padre del grande divulgatore scientifico Piero Angela, era il direttore sanitario della clinica psichiatrica privata Villa Turina Amione di San Maurizio Canavese, e aprì le porte di quella struttura sanitaria agli ebrei e agli altri perseguitati dal nazifascismo, falsificando dati anagrafici e cartelle cliniche. E ci vollero 57 anni dalla fine della guerra perché l'eroe civile Carlo Angela vedesse riconosciuto il suo operato dall'Istituto Yad Vashem di Israele e potesse ricevere l'onorificenza di Giusto tra le Nazioni dal consigliere dell'ambasciata d'Israele a Roma in una cerimonia che si tenne a San Maurizio Canavese il 25 aprile 2002.
    Ma già due anni prima, nel cinquantunesimo anniversario della scomparsa, un'altra cerimonia aveva principiato a rendere giustizia alla figura di Carlo Angela: il Comune di San Maurizio Canavese e la locale sezione dell'ANPI dedicarono alla memoria dello psichiatra una lapide, collocata sul muro esterno di Villa Turina prospiciente la piazza del Municipio: "Insigne psichiatra e nobile figura del primo antifascismo. Praticò la forma più alta di resistenza civile, offrendo sicuro rifugio a Ebrei e perseguitati politici". E in quell'occasione venne anche presentata la mostra "Carlo Angela e San Maurizio Canavese. Scienza, politica e solidarietà alle vittime del nazifascismo", a cui nel 2002 si affiancò, a cura dell'assessorato alla Cultura della Provincia di Torino, il catalogo illustrato (curato da Franco Brunetta, Anna Segre e Gianfranco Torri) di cui qui riproduciamo la copertina, conservato nella Biblioteca della Città metropolitana di Torino "Giuseppe Grosso" e in poche altre del territorio provinciale.
    Carlo Angela, uomo di grande umanità e solida cultura, unì l'ideale di libertà alla solidarietà, e senza chiedere nulla in cambio si prodigò nel soccorso alle vittime della persecuzione razziale e agli oppositori politici, sottraendo vite altrimenti destinate alla distruzione nei lager. Oppositore dichiarato del fascismo fin dalle origini, vicino alle posizioni del socialismo riformista, fu praticamente confinato a Villa Turina per oltre vent'anni; organizzatore del CLN di San Maurizio Canavese, fu sindaco del paese nei primi mesi dopo la Liberazione.
    Proprio dal racconto di uno dei ricoverati sotto falso nome nella clinica Turina, Renzo Segre, pubblicato  da Sellerio nel 1995 con il titolo "Venti mesi", cominciò la lenta uscita dall'oblio della figura di Carlo Angela. Nel libro, Segre, ebreo biellese, ma originario di Casale Monferrato, racconta l'angoscia quotidiana sua e di sua moglie di essere scoperti: un calvario che segnò profondamente il protagonista, per tutta la vita.

  • Pietro e Maria Antoniono e il loro figlio Carlo

    Torre Canavese. Pietro e Maria Antoniono e il loro figlio Carlo
    Prodigarsi senza risparmio per trovare nascondigli sicuri alla famiglia Levi

    Marco Levi, chimico, viveva con la famiglia a Torino, dove lavorava per la compagnia petrolifera Shell. Nel 1938, con la promulgazione delle leggi antiebraiche, fu licenziato. Nel 1940 decise di trasferire la famiglia nel paese di Torre Bairo (oggi Torre Canavese), a circa 25 km a nord di Torino. Dapprima alloggiarono nella locanda locale, poi Levi comprò una casa con un appezzamento di terreno, con il quale sperava di guadagnarsi da vivere come contadino. Non aveva precedenti esperienze agricole, ma gli agricoltori locali erano molto cordiali e offrivano consigli utili. La famiglia Levi - Marco, sua moglie Virginia, i figli, Riccardo di sei anni e Tullio di tre anni, e la madre di Virginia, Adele - stabilirono un legame molto stretto con una famiglia in particolare: Pietro (Perù) e Maria (Merla) Antoniono e i loro due figli, Carlo, 14 anni, e Gina, 12.
    Nel dicembre 1943 per i Levi non era più sicuro restare nella loro casa di Torre. Tuttavia, la madre di Virginia, Adele, era piuttosto fragile e trasferirla in un nuovo posto era fuori questione. Pietro e Maria Antoniono insistettero che si sarebbero presi cura di Adele e del giovane Tullio a casa loro. Inoltre, gli Antoniono trovarono un nascondiglio per Marco, Virginia e Riccardo nella canonica della vicina chiesa "Tre Ciuchè", e provvidero loro da mangiare. Non molto tempo dopo, Adele morì e gli Antoniono trasferirono Tullio nel nascondiglio dei suoi genitori.
    Quando  la canonica non fu più sicura, perché qualcosa era trapelato alle autorità, gli Antoniono trovarono per i Levi un nuovo nascondiglio in una fattoria isolata, continuando a provvedere a tutte le loro necessità e portando loro le provviste in bicicletta. Nel 1944 Carlo compì 18 anni e divenne idoneo al servizio militare, ma rifiutò di arruolarsi, e rischiando l'arresto per diserzione continuò a consegnare beni alla famiglia Levi. Alla vigilia della Pasqua ebraica, Carlo trasportava una Haggada nascosta in un fascio di biancheria quando fu fermato dalla polizia fascista e perquisito. Fortunatamente, la polizia non trovò nulla e gli fu permesso di continuare per la sua strada. Nel dicembre del 1944 i Levi dovettero cambiare ancora nascondiglio, spostandosi in un gruppo di case isolate sparse nei boschi vicino a Torre. Quando Carlo non poté più portare le provviste di famiglia perché anch'egli costretto a nascondersi, sua sorella Gina continuò al suo posto. I Levi rimasero nascosti fino all'aprile del 1945, sempre sotto la protezione della famiglia Antoniono a curare il loro benessere fino alla fine della guerra.
    Il 31 gennaio 2011, Yad Vashem ha riconosciuto Pietro e Maria Antoniono e il loro figlio Carlo come Giusti tra le nazioni.

  • Famiglia Avondet

    A Luserna la solidarietà degli Avondet

    La famiglia Avondet di Luserna San Giovanni, composta dai coniugi Michel e Leontine e dalle figlie Silvia (coniugata Malan) e Maria (coniugata Comba) offrì rifugio a due famiglie ebraiche alessandrine imparentate tra loro: quattro membri dei Vitale e cinque dei Norzi. Claudio Vitale era nato nel 1892, sua moglie Diana (nata Norzi) nel 1898, le loro figlie Ada e Laura rispettivamente nel 1922 e nel 1928, La famiglia di Amleto Norzi era composta da sua moglie, due figlie e il figlio Silvio. Gli Avondet ospitarono le due famiglie nella loro casa dall'ottobre del 1943 all'aprile del '45. Per qualche tempo ospitarono anche Tilde, una parente delle due famiglie. Laura Vitale, poi coniugata Nahum, ha raccontato che suo padre Claudio e il cognato Amleto Norzi abbandonarono Alessandria e fuggirono a Luserna all'inizio dell'ottobre 1943, quando l'occupazione nazista e la repressione dei primi nuclei della Resistenza si fecero più serrate e spietate, mentre iniziava la caccia senza quartiere agli ebrei da avviare alla deportazione nei campi di sterminio. Le donne e i figli raggiunsero ben presto i capifamiglia a Luserna, per stabilirsi nella Val Pellice che ben conoscevano, avendovi trascorso per anni le vacanze estive. La lunga storia di esilio e sofferenze aveva indotto i Valdesi della Val Pellice a mostrare senza indugio la loro solidarietà concreta agli ebrei perseguitati e a chi in montagna lottava per la libertà. Furono molti i valligiani Valdesi che, giorno per giorno, consentirono agli ebrei rifugiati di sopravvivere. Gli Avondet cedettero spontaneamente ai Vitale e ai Norzi due delle tre camere della loro modesta casa, senza mai accettare alcuna forma di pagamento o ricompensa per il cibo e per l'alloggio forniti. La gentilezza e la sensibilità di quella povera ma dignitosissima famiglia, che non possedeva terreni ma coltivava proprietà altrui, aiutò le due famiglie a superare un anno e mezzo che definire duro è un eufemismo. Leontine Avondet guadagnava qualche soldo accudendo bambini di altre famiglie, mentre le figlie Maria e Silvia lavoravano in una fabbrica di stoffe. Accogliere ebrei in casa era un rischio mortale, perché anche Luserna non mancavano spie nazifasciste e antisemiti, tra i quali il padrone di casa degli Avondet, che impose loro senza successo di cacciare gli ospiti a lui sgraditi. Anche dopo la guerra la famiglia lusernese rimase in contatto con le famiglie a cui aveva offerto rifugio e salvezza. Yad Vashem ha rinosciuto nel 1981 Michel e Leontine Avondet, le loro figlie Silvia Malan e Maria Comba e il genero Alfredo Comba come Giusti tra le Nazioni.

  • Monsignor Vincenzo Barale e don Vittorio Cavasin

    Torino. Monsignor Vincenzo Barale (con don Vittorio Cavasin)

    Monsignor Vincenzo Barale (1903-1979) era il segretario del Cardinale Maurilio Fossati, che fu arcivescovo di Torino dal 1930 al 1965. Nel 1944, monsignor Barale affidò a don Vittorio Cavasin (1901-1992), un sacerdote salesiano che allora ricopriva la carica di rettore del Collegio salesiano di Cavaglià (un Comune oggi in provincia di Biella), tre bambini di religione ebraica (due torinesi, Aldo e Roberto Zargani e un bambino ebreo tedesco, la cui madre venne deportata da Torino) salvandoli dai campi di sterminio nazisti. In virtù di questo salvataggio, sia monsignor Barale che don Cavasin sono stati nominati Giusti tra le Nazioni, il primo nel 2014 e il secondo nel 2015.
    Il riconoscimento è giunto dopo che Aldo Zargani ha voluto raccontare la vicenda e ringraziare pubblicamente il suo salvatore. "Sono ebreo" ha spiegato Zargani "e ho vissuto la Shoah durante l'infanzia. Debbo la vita ai Salesiani che mi hanno protetto e nascosto durante il 1944 nel Collegio di Cavaglià, insegnandomi, nella persona del Rettore don Cavasin, a fingere di essere cattolico senza mai, dico mai, accennare neppure a una mia eventuale conversione al Cattolicesimo. Di questo miracolo del XX secolo ho sempre manifestato la mia riconoscenza con ogni mezzo". Zargani ha riportato la sua vicenda nel libro "Per violino solo. La mia infanzia nell'aldiqua (1938-1945), pubblicato dal Mulino nel 1995.
    Don Cavasin non aveva mai parlato di questo episodio, ma a Borgomanero, dove ha trascorso la maggior parte della sua vita insegnando italiano e latino, lo ricordano con le parole che sono state scritte, in occasione della morte, sulla sua immaginetta: «Educatore con il cuore di don Bosco, insegnante attento alla cultura e alla vita».

  • Clotilde Boggio

    Clotilde Boggio, una storia di Giusti che ne contiene un'altra

    Chiamata "Mamma Tilde", nata a Cuorgné nel 1898, salvò la vita a Massimo Foà, neonato di 9 mesi. Nel 1944 Clotilde Boggio (nata Roda) era una vedova con tre figli di 19, 16 e 14 anni.
    La famiglia Foà era composta da Guido, sua moglie Elena e suo papà Donato, e da Torino si era rifugiata prima a Cuorgné e poi a Canischio per sfuggire ai bombardamenti e al pericolo che venisse scoperta la loro identità ebraica. Per una denuncia anonima di "favoreggiamento ai partigiani e sospetta appartenenza alla razza ebraica", tutta la famiglia Foà fu arrestata il 9 agosto del 1944 dalla polizia italiana e dalle SS e fu portata alle carceri Nuove di Torino. Da lì, con il provvidenziale aiuto di una suora, che lo nascose tra i sacchi della biancheria sporca, Massimo fu fatto uscire e fu portato alla famiglia Boggio di Cuorgné, alla quale era stato promesso un compenso per prendersi cura del bambino. Malgrado tale compenso non sia mai giunto, Clotilde si occupò del piccolo Massimo dall'agosto del 1944 fino all'ottobre del 1945: Mamma Tilde era molto povera, ma il bimbo fu sempre trattato come un membro della famiglia e non gli fu fatto mancare nulla.
    Nel frattempo, i genitori e il nonno di Massimo furono deportati ad Auschwitz, da dove mamma Elena tornò a casa.
    Una volta, i tedeschi d ipresentarono a casa Boggio chiedendo chi fosse il bambino, e Clotilde rispose che era suo nipote, aggiungendo che suo figlio era stato deportato in Germania. In verità, i suoi figli erano in quel periodo in montagna a combattere con i partigiani.
    Questa storia ha una coda meravigliosa: la vicenda di Suor Giuseppina, la religiosa che lavorava in carcere e che riuscì a far fuggire dalle nuove il piccolo Massimo, è stata presentata allo Yad Vashem, e si è in attesa che venga conclusa l'istruttoria per la nomina a Giusto fra le Nazioni. Speriamo di poter presto annunciare questa bella novità!

  • Dalmiro e Verbena Costa

    Dalmiro e Verbena Costa e quella ragazzina nascosta a Sauze d'Oulx

    Dopo l'8 settembre 1943 la famiglia Lolli, i genitori Enzo e Emma e le figlie Elda di 22 anni e Nedelia di 14, si smembrò, ritenendo che un nucleo famigliare di ebrei poteva dare più nell'occhio ad eventuali delatori. Per tutto l'inverno 1943-1944 Nedelia fu accolta da una famiglia di amici, i signori Dalmiro e Verbena Costa, sfollati a Sauze D'Oulx. L'ingegner Dalmiro Costa era legato alla Resistenza e il suo figlio primogenito, partigiano, venne catturato dai nazifascisti, torturato e barbaramente ucciso. Nonostante rischiassero la vita ospitandola, i Costa erano particolarmente affettuosi e protettivi con Nedelia e la presentavano ai conoscenti come piccola baby-sitter per i loro due bambini di 4 e 7 anni. Dalmiro, catturato dai nazifascisti nella notte di Natale del 1944, visse il 25 aprile in prigionia e morì di cuore qualche giorno dopo. Il 17 novembre 2017, durante la cerimonia di consegna delle medaglie di Giusti tra le Nazioni alla memoria di Dalmiro e Verbena Costa nella sala delle Colonne del Municipio di Torino, Nedelia Lolli raccontò di quando suo padre Renzo Lolli, poi ucciso ad Auschwitz, si accordò con l'ingegner Dalmiro per nasconderla a Sauze d'Oulx facendola passare come educatrice per i due figli. Nedelia ripercorse quell'inverno passato tra le montagne a badare a due bambini di pochi anni più piccoli di lei. Quando l'attività partigiana di Dalmiro rese ancora più pericolosa la presenza di un'ebrea in famiglia, Nedelia fu costretta a nascondersi dalle Suore del Buon Pastore di Torino. Durante la cerimonia a Palazzo Civico, Giorgio Costa, che ora vive in Argentina mentre il fratello Marcello risiede in Australia, ricordò: "Ero un bambino di sette anni. Secondo voi cosa voleva dire per un bambino di 7 anni che una ragazza era ebrea? Che cosa erano queste leggi razziali? Ai nostri occhi inizialmente era un'istitutrice anomala, molto giovane. Col passare dei giorni ci rendemmo conto però che c'era qualcosa che non quadrava: era giovanissima e per nulla arcigna come ci si aspetterebbe dalla parola istitutrice". Dopo la morte dell'ingegner Dalmiro e del padre di Nedelia fu impossibile per le famiglie Costa e Lolli-Tedeschi avere notizie reciproche. Purtroppo Nedelia aveva dimenticato i nomi propri dei signori Costa, mentre ai Costa, che erano emigrati a Buenos Aires dopo la guerra, rimasero solo un paio di fotografie. Proprio quelle fotografie, recuperate dalla moglie di Giorgio all'inizio degli anni Duemila, spinsero quel bambino  ormai diventato nonno, a cercare quella giovane Nedelia, di cui conservava ancora un dolce ricordo. Grazie ad Internet furono possibili il ricongiungimento delle famiglie e i primi incontri, con l'invito a partecipare al seder di Pesach della famiglia Lolli-Tedeschi. All'insaputa della famiglia Costa, iniziarono le procedure per il riconoscimento del titolo di Giusti tra le Nazioni per Dalmiro e Verbena. "Yad Vashem ci ha chiesto dove volevamo ricevere questa onorificenza: a Buenos Aires dove vivo io o ad Adelaide dove vive mio fratello. - ha ricordato Giorgio Costa - Entrambi siamo stati d'accordo: andava fatto a Torino, la città di Nedelia. Anche noi ci sentiamo ancora intimamente torinesi".

  • Paolo De Quarti

    Quando Paolo De Quarti, profeta dell'industria elettronica italiana, salvò il suo ingegnere ebreo

    Nel XX secolo, nel panorama dell'industria elettronica italiana quello della Magnadyne è stato sicuramente uno dei marchi di apparecchi radiofonici più diffusi e prestigiosi, anche all'estero. Come gran parte delle iniziative di successo che sorsero in Italia negli anni successivi alla Prima Guerra mondiale, la Magnadyne fu il frutto dell'ingegno e della tenacia di un giovane alessandrino intraprendente, Paolo De Quarti. Lo sviluppo della ditta fu continuo e costante e neanche il secondo conflitto bellico riuscì a fermarlo. E fu proprio negli anni bui della Seconda Guerra Mondiale che Paolo De Quarti decise di assumere l'ingegnere Nissim Gabbai, nato a Smirne da genitori italiani; lo assunse nonostante fosse un ebreo sefardita. Era il novembre del 1940 e le leggi razziali, a due anni dall'approvazione, sconsigliavano, se non impedivano, ad un'azienda italiana di assumere un ebreo; anche se si era laureato in ingegneria a Roma nel 1939, con la votazione di 110 ma senza lode, appunto perché era ebreo. A De Quarti, come ha testimoniato Nissim Gabbai proponendone l'iscrizione nel Libro dei Giusti, l'etnia e la religione del suo ingegnere non interessavano. Nissim era giovane, capace e volenteroso e aveva potuto studiare a Roma potendo contare su di una borsa di studio conferitagli in Turchia grazie ai buoni voti ottenuti in un Liceo di Istambul: tanto bastava. Nel 1942 l'azienda fu bombardata e dovette riorganizzarsi. Gabbai fu impiegato nella progettazione di radio per aerei militari. Il progetto era solo una copertura, per convincere le autorità fasciste dell'importanza della ricerca, acquisire commesse e proteggere i dipendenti. Quando la tensione aumentò, De Quarti licenziò formalmente Gabbai, ma continuò a richiedere la sua collaborazione come consulente. Anche quando l'ingegnere ebreo fu arrestato e detenuto alle Carceri Nuove, De Quarti continuò a portargli lavoro in carcere e ad insistere con le autorità germaniche sull'importanza strategica per l'esercito tedesco di questo giovane tecnico e del suo progetto, portandogli del finto lavoro in carcere. Gabbai continuò per anni a rimanere detenuto a Torino e l'ordine di deportazione fu via via rimandato. Quel ritardo gli salvò la vita. Quando la guerra terminò Nissim Gabbai si trovava in un campo di concentramento a Bolzano: fu forse un attacco di appendicite a salvarlo dalla deportazione definitiva in un campo di concentramento e sterminio. Intanto alla Magnadyne la produzione, anche se a ritmo ridotto, era proseguita quasi senza interruzione. Una volta liberato, Gabbai tornò a lavorare nell'azienda torinese fino alla pensione. Nel 1964 ne divenne il direttore generale. Quando alla fine degli anni '60 si avvertirono i primi segnali della crisi dell'industria elettronica Italiana la Magnadyne iniziò la sua parabola discendente. Ma nel frattempo, acquistando le radio del marchio torinese, centinaia di migliaia di famiglie italiane, anche quelle di fede fascista e ostili agli ebrei, avevano dato il loro piccolo contributo alla prosperità dell'azienda e, indirettamente, alla salvezza del suo ingegnere ebreo.

  • Padre Giuseppe Girotti

    Padre Giuseppe Girotti, il Giusto e Beato albese che nascondeva ebrei e partigiani

    Padre Giuseppe Girotti, religioso domenicano ed insigne biblista, nato ad Alba il 19 luglio 1905 e morto il 1º aprile 1945, è annoverato tra i Giusti tra le Nazioni per la sua azione a favore degli ebrei, per la quale sacrificò la propria vita con la deportazione e la morte nel campo di sterminio di Dachau. Nel 2014 la Chiesa cattolica gli ha riconosciuto il titolo di beato. Nato da un'umile famiglia, a tredici anni Giuseppe entrò nel seminario domenicano di Chieri e, dopo aver pronunciato la professione religiosa nel 1923 a La Quercia, venne ordinato sacerdote il 3 agosto 1930. Brillante negli studi, l'anno successivo si laureò in teologia a Torino e si specializzò nell'interpretazione delle Sacre Scritture presso l'Angelicum a Roma e all'École biblique di Gerusalemme, dove fu allievo di padre Marie-Joseph Lagrange e, nel 1934, conseguì il titolo accademico di Prolita in Sacra Scrittura. La sua carriera di appassionato biblista e teologo proseguì con la  pubblicazione di commentari sui Libri Sapienziali (1938) e sul profeta Isaia (1942), apprezzati ed encomiati anche dalla Santa Sede, sia per la profondità delle riflessioni sia per la chiarezza e l'intensità dell'esposizione. Aspetti che ne caratterizzarono anche l'insegnamento presso il Seminario teologico domenicano di Torino di Santa Maria delle Rose. Nello stesso tempo padre Giuseppe fu impegnato in opere caritative, specialmente presso l'Ospizio dei Poveri Vecchi. La sua personalità indipendente, anticonformista e spesso ironica lo pose in contrasto con le autorità fasciste e in sospetto di modernismo presso i suoi superiori, per i quali, in quel difficile periodo storico, solo una disciplina ferrea avrebbe garantito la salvaguardia dell'ordine. Nel 1939 le accuse contro di lui ebbero come conseguenza la sospensione delle sue lezioni al seminario domenicano e il suo allontanamento, con il trasferimento nel convento di San Domenico e l'insegnamento al Collegio dei Missionari della Consolata. Dopo l'8 settembre 1943, padre Girotti, all'insaputa dei suoi superiori, fu al centro di una vasta rete di sostegno a favore dei partigiani e soprattutto degli ebrei, verso i quali nutriva un'affinità culturale maturata negli anni del suo soggiorno a Gerusalemme e successivamente sviluppata con gli studi biblici. È in questo senso che vanno intese le sue espressioni "portatori della Parola di Dio" e "fratelli maggiori" riferite agli ebrei, per molti dei quali, in quel momento di persecuzione e sofferenza, si impegnò a trovare nascondigli sicuri e documenti di identità falsi. Elyane Weil, che conobbe Padre Girotti prima della guerra perché i suoi genitori ad Alba abitavano vicino a lui, fu aiutata insieme a sua madre Emma De Benedetti a trovare rifugio per alcuni mesi in un convento a Torino. Il domenicano albese procurò inoltre a suo padre una carta d'identità falsa. Secondo la testimonianza di Elyane, grazie alle sue relazioni con militari delle SS austriaci e antinazisti, Padre Girotti riuscì a conoscere per tempo il piano dei rastrellamenti tedeschi a Torino e a mettere sull'avviso molti ebrei, tra i quali l'avvocato torinese Salvatore Fubini.  Per questa sua attività venne arrestato, tradito dall'inganno di una spia che, fingendosi un partigiano ferito, si fece trasportare in una villa di Cavoretto dov'era nascosto il professore ebreo Giuseppe Diena. Il 29 agosto 1944 padre Girotti venne imprigionato nel carcere Le Nuove di Torino. Nonostante gli sforzi del suo priore per farlo liberare, venne trasferito prima a Milano nel carcere di San Vittore, poi nel lager di Gries a Bolzano e infine il 5 ottobre 1944 a Dachau. Secondo la testimonianza di don Angelo Dalmasso, sacerdote che con lui condivise la detenzione nel campo di sterminio bavarese, Girotti vi si distinse per la sua generosità nei confronti degli altri internati, per il suo atteggiamento di apertura e come "portatore della Parola di Dio". Rinchiuso nella baracca 26, in cui erano ammassati un migliaio di ecclesiastici contro i 180 previsti, si ammalò e fu ricoverato nell'infermeria, dove morì il giorno di Pasqua del 1945, non ancora quarantenne; forse eliminato con un'iniezione di benzina, com'era abitudine nel campo. Sulla sua cuccetta i suoi compagni di prigionia scrissero "Qui dormiva San Giuseppe Girotti". Nel 1988 è cominciato presso la Curia di Torino il processo di canonizzazione e il 27 marzo 2013 Papa Francesco ne ha autorizzato il decreto di beatificazione, avvenuta nel duomo di Alba il 26 aprile 2014. Il 14 febbraio 1995, a cinquant'anni dalla morte, Padre Girotti ricevette la medaglia alla memoria come Giusto tra le Nazioni. Il suo nome è iscritto nell'albo ufficiale e un albero è piantato in suo onore nel Viale dei Giusti a Yad Vashem. La Città di Alba gli ha intitolato una via, mentre l'associazione che porta il suo nome gli ha dedicato la sala "Giusti fra le Nazioni" nel Centro culturale San Giuseppe.

  • Carlo Hugon ed Ernestina Fontana

    Quando la famiglia Hugon nascose la famiglia Rossi in una cascina a Torre Pellice

    Alcuni anni orsono i coniugi Carlo Hugon (1900-1973) ed Ernestina Fontana (1902-1991) sono stati insigniti del titolo di Giusti tra le Nazioni alla memoria perché ospitarono dal luglio 1944 all'agosto 1945 in una cascina presso Torre Pellice una famiglia di ebrei sfollati da Torino. Di quella famiglia facevano parte il rappresentante di materiale elettrico Emanuele Rossi (1897-1977), la moglie Ada Morello (1910-1991) e le figlie Luciana di 14 anni e Giorgina di 6 anni. Gli Hugon, entrambi valdesi, avevano quattro figlie: Germana di quattordici anni, Lia di dodici, Paola di otto e Giuliana di un anno. A ritirare il riconoscimento, il 19 maggio del 2014 nella sala consiliare del Municipio di Torre Pellice, venne chiamata Germana Hugon Bellion, la figlia primogenita di Carlo ed Ernestina. Nel luglio 1944 per la famiglia Rossi lo sfollamento a Torre Pellice era stato indispensabile: la loro abitazione torinese era stata distrutta dai bombardamenti e nella grande città, dopo l'approvazione delle leggi razziali, non si sentivano più al sicuro. "I miei nonni, - ha raccontato il nipote Franco Bellion durante la cerimonia di conferimento del titolo di Giusti tra le Nazioni alla memoria dei coniugi Hugon - vivevano in una cascina nella frazione Inverso, dedicandosi al lavoro dei campi. Accanto alla fattoria, c'era la casa natìa della nonna che, dopo la morte dei bisnonni, era rimasta vuota. I miei nonni furono felici di accogliere in quella casa la famiglia Rossi". Il 2 agosto 1944, cinque giorni dopo l'arrivo dei Rossi, una pattuglia tedesca appiccò un incendio sia nella casa dov'era nascosta la famiglia ebraica che in quella adiacente, di proprietà degli Hugon. "I soldati non sapevano della presenza degli ebrei, - ha raccontato Franco Bellion - ma volevano vendicarsi di alcuni spari contro la colonna, giunti dai boschi dietro casa nostra, peraltro senza colpire nessuno. Forse con l'incendio pensavano di poter stanare dei partigiani, ma non ne trovarono". I germanici fecero prigionieri Carlo Hugon ed Emanuele Rossi, ma nessuno in paese rivelò l'identità ebraica dei Rossi. Carlo Hugon ed Emanuele Rossi furono trattenuti per una settimana e poi rilasciati. La fattoria degli Hugon era andata distrutta, ma nella casa in cui vivevano i Rossi era bruciato solo il fienile. I Rossi offrirono prontamente la loro disponibilità ad andarsene, per lasciare un'abitazione sicura agli Hugon. "Giammai in questa vita!" rispose con decisione Ernestina. Così, per un anno intero, la famiglia Hugon si accampò in un deposito degli attrezzi, malamente riscaldato da un primitivo camino. Fino alla fine della guerra gli Hugon continuarono a provvedere, anche economicamente, al sostentamento dei loro ospiti, condividendo le provviste, ormai scarse, ricavate dal loro lavoro nei campi. Fu un aiuto prezioso, accanto alle risorse che Emanuele Rossi reperì prestandosi come bracciante nelle fattorie vicine. "La popolazione di Torre Pellice sapeva che i Rossi erano ebrei e lo sapeva perfino il rappresentante del Partito Fascista Repubblicano, ma nessuno denunciò mai la loro presenza" ha testimoniato Franco Bellion. Di quanto avvenne durante la guerra Carlo ed Ernestina non raccontarono mai nulla al nipote, che apprese del coraggio dei nonni da altre persone. Tra le famiglie Hugon e Rossi è ancora viva un'intensa amicizia, che si tramanda di generazione in generazione. Il marito di Luciana Rossi, il fisico Arrigo Cigna, insieme alle figlie Alessandra e Margherita, si è adoperato per far ottenere ai nonni di Franco Bellion il riconoscimento di Giusti tra le Nazioni. Luciana lo desiderava ardentemente, ma purtroppo è spirata prima di veder realizzato il suo sogno. "I nonni erano persone semplici, col riserbo tipico dei piemontesi. - ha ricordato Bellion durante la cerimonia del 2014 a Torre Pellice - Rifuggivano dall'ostentazione. Del resto sapevano di aver fatto solo il loro dovere".

  • Famiglie Martinetto e famiglia Pricco

    Castellamonte. Giacomo e Teresina Martinetti, Giovanni e Lucia Martinetti, e Domenico e Maria Pricco

    I Levi-Foa, una famiglia ebrea di Torino, avevano deciso di lasciare Torino con l'intensificarsi dei bombardamenti. Maria Pricco, che era stata a servizio da loro, gli trovò una collocazione nella casa di Giacomo e Teresina Martinetti, che vivevano nel villaggio natale di Maria: San Giovanni Canavese, frazione di Castellamonte.
    Ai Levi (Beniamino e la moglie Adelina) si unirono Emma e Leone Foa (la loro figlia e suo marito) e i loro figli, Gabriella (n. 1936) e Paolo (n. 1938) Foa, così come il fratello di Emma, ​​Giorgio Levi.
    Teresina Martinetti era la postina del paese e la sua spaziosa casa accoglieva comodamente gli ospiti. Beniamino, Leone e Giorgio continuavano a lavorare a Torino, e i bambini si godevano la vita di campagna, giocando sulla grande terrazza della casa e nel cortile.
    Nel settembre del 1943 con l'occupazione tedesca la vita cambiò radicalmente: gli uomini persero il loro lavoro e le notizie  degli arresti di ebrei in tutta Italia li spinsero a decidere di tentare la fuga in Svizzera. Ma l'intensificarsi dei controlli li costrinse dapprima a rimanere nascosti a casa Martinetti, e poi a cercare un nascondiglio migliore: i Levi-Foa si trasferirono presso un'altra famiglia, quella di  Giovanni e Lucia Martinetti, e poi furono portati in una fattoria che apparteneva a Maria e suo marito, Domenico Pricco. I Pricco non vivevano nella fattoria, ma ci venivano per prendersi cura degli animali e lavorare i campi. Presto i Levi-Foa si adattarono alla nuova vita di contadini, che durò fino alla fine della guerra
    Il 29 gennaio 2013, lo Yad Vashem ha riconosciuto Giacomo e Teresina Martinetti, Giovanni e Lucia Martinetti, e Domenico e Maria Pricco come Giusti tra le nazioni.

  • Ugo Moglia

    Ugo Moglia, il fotografo azionista settimese che salvò la famiglia Rosemberg-Colorni

    Durante la Seconda Guerra Mondiale il fotografo settimese Ugo Moglia, militante del Partito d'Azione, aiutò a mettersi in salvo la famiglia dei banchieri milanesi Rosemberg-Colorni, composta di padre, madre e due figli, Maurizio e Vittoria. La famiglia di Moglia era sfollata da Settimo Torinese a Castelnuovo Don Bosco, nell'Astigiano, dove Ugo trovò un rifugio anche per i Rosemberg-Colorni. All'inizio della guerra Roberto Rosenberg-Colorni era sfollato con la famiglia a San Fermo della Battaglia, non lontano da Como. Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 riuscì a rifugiarsi in Svizzera. La moglie Perla Aboaf e i figli, Vittorio, dodicenne e Maurizio di pochi mesi, trovarono ospitalità presso un istituto di suore. Nel dicembre dello stesso anno, mentre cercavano di raggiungere il confine svizzero, furono catturati e trasferiti a Como. Provvidenziale si rivelò l'intervento del parroco di Gravedona, don Luigi Granzella, che riuscì a farli rocambolescamente evadere con l'aiuto di una donna, Ginevra Bedetti, moglie del partigiano Luigi Masciadri. Era l'aprile 1944. Un'automobile trasportò Perla Aboaf e i suoi due figli alla stazione centrale di Milano: la loro meta era Settimo Torinese, presso Ugo Moglia. Vittorio Rosenberg-Colorni ritiene che il contatto fosse stato stabilito da Masciadri, che collaborava con alcuni antifascisti piemontesi, fra cui l'avvocato Tancredi "Duccio" Galimberti, dirigente del Partito d'Azione, promotore dei primi nuclei della Resistenza in Provincia di Cuneo, assassinato dai fascisti nel novembre del 1944. Moglia si prodigò per la salvezza della famiglia ebrea, che accompagnò a Torino e poi nascose a Pont Canavese presso un amico, procurando carte d'identità e tessere annonarie false. Quando il rifugio parve meno sicuro, Moglia fece trasferire i Rosemberg-Colorni ad Albugnano. Il 1° gennaio 2004 Ugo Moglia è stato riconosciuto Giusto fra le Nazioni, ma già nel 1955, la signora Rosemberg-Colorni gli fece rilasciare un attestato in segno di gratitudine per l'aiuto prestato in circostanze difficili e pericolose. Nel 2013 il periodico del Comune di Buccinasco pubblicò la testimonianza di una delle persone che si salvarono grazie a Moglia: "Nel mio intimo, Ugo Moglia e la sua sposa sono sempre stati nel Giardino dei Giusti. Infatti, seppure talvolta io ritenga trascurabile la nostra storia a fronte di altre, è certo che essa poté diventare tale soltanto perché noi siamo stati sottratti alla sorte predestinata grazie alle iniziative e all'energia di coloro che, in tempi d'infamia e morte incombente, hanno saputo scegliere la vita come valore assoluto, a rischio della loro e di quella dei loro cari". Al termine del conflitto Moglia entrò nella giunta comunale popolare che si costituì a Settimo su iniziativa del CLN, in rappresentanza del Partito d'Azione.

  • Famiglia Richetto

    Il casolare di montagna a Villar Dora in cui la famiglia Richetto ospitò 13 ebrei

    Carmelo Richetto e la moglie Angiola Quattrin soccorsero e salvarono tredici componenti delle famiglie ebraiche torinesi Valabrega, Sacerdote, De Benedetti e Lahmi nascondendoli dal 12 novembre 1943 alla fine del 1944 nel loro casolare di montagna a Borgionera di Villar Dora, in Valle di Susa. La zona era continuamente percorsa dai tedeschi e dai fascisti della Repubblica Sociale, che terrorizzavano la popolazione locale durante i rastrellamenti alla ricerca di partigiani e di ebrei, ma i Richetto, con notevole coraggio, solidarietà e sprezzo del pericolo, continuarono a portare cibo ai loro ospiti e ad informarli sull'evoluzione della guerra e della Resistenza. Per evitare loro i disagi della montagna, Angiola Richetto, ospitò nella sua casa di Villar Dora le nonne Vittoria De Benedetti e Giulia Lahmi. Nel 1944 la situazione peggiorò e Carmelo Richetto, aiutò le famiglie ospitate a Borgionera a trovare un nuovo rifugio a Rubiana, dove continuò ad assisterle portando loro il necessario per vivere. Valerio Valabrega, che a quei tempi aveva 15 anni, ha ricordato nella sua testimonianza lo stretto e affettuoso rapporto sviluppatosi tra la sua famiglia e i Richetto. Il padre di Carmelo, Michele, aveva una particolare sensibilità e simpatia verso gli ebrei che in Palestina sopravvivevano praticando l'agricoltura con tecniche innovative e all'avanguardia. Durante la convivenza con gli ospiti, Michele leggeva con grande attenzione i vecchi numeri del giornale "Israel" che gli ebrei avevano portato con sé, affascinato dagli articoli sull'agricoltura che suscitavano l'interesse dell'anziano contadino.

  • Giuseppe Sapino e la moglie Mariush

    Giuseppe Sapino e la moglie Mariush, che nascosero nella loro casa di Torre Bairo due coppie di ebrei

    Giuseppe Sapino, un contadino conosciuto col nome di Pinot, viveva con sua moglie Mariush e due figlie, Caterina e Annetta, nel paese isolato di Pranzalito, ad alcuni chilometri da Torre Bairo, nel Canavese. Un giorno due sorelle, Anita e Rosita, entrambe col marito, comparvero nel cortile dei Sapino. Il marito di Rosita era Donato Montel, ex impiegato della Standard Oil Company di Genova, e il marito di Anita era l'avvocato Moise Foa. Le due coppie erano sfollate da Torino nel 1941 e si erano stabilite nel paese di Torre Bairo, vicino a Ivrea. La popolazione locale si era dimostrata amichevole e questo li incoraggiò a restare in paese fino a quando, a seguito dell'emanazione del decreto italiano di arresto del 30 novembre 1943, si presentò il pericolo di essere scoperti e arrestati ed essi decisero di cercare un rifugio più sicuro. Per intercessione della sarta di San Giovanni, persona onesta e sensibile, un uomo fidato andò ai primi di dicembre a prendere con un carro Moise Foa e le poche masserizie e li portò a casa di Giuseppe Sapino, ai margini della foresta, dove si diressero anche Montel e le due donne, presentati come semplici sfollati. Sapino diede loro, per una piccola cifra di affitto, due stanzette e un cucinino annessi alla sua casa.
    Dopo poche settimane, l'ospite disse loro che aveva capito che erano ebrei, e che proprio per questo li ospitava, e li rassicurò che non li avrebbe denunciati a nessuno. Essi ricevettero anche prodotti agricoli dai loro ospiti. Rosita e Anita davano una mano in cucina e con lavori a maglia e di cucito, e i loro mariti aiutavano Giuseppe e raccoglievano nei boschi la legna necessaria per cucinare e per il riscaldamento. Quando arrivavano persone in visita, essi venivano presentati come sfollati da Torino per via dei bombardamenti. Lì vissero al sicuro per un anno e quattro mesi. Giuseppe Sapino li avvisava appena circolavano voci di imminenti rastrellamenti nella zona, in modo che potessero nascondersi nella foresta.
    Dopo la guerra, i Montel e i Foa mantennero affettuosi rapporti con il loro salvatore.

  • Giuseppe Togliatto e sua moglie Giuseppina Favero

    I Togliatto di Lanzo, che salvarono la famiglia ebrea dei Cytron

    La famiglia ebrea dei Cytron dopo l'8 settembre 1943 sfollò da Torino e affittò due stanze nella casa della famiglia Togliatto, consapevole dell'identità ebraica dei loro ospiti. Giuseppe Togliatto, sua moglie Giuseppina e i loro quattro figli erano una famiglia di frutticoltori, e vivevano nel piccolo paese di Lanzo Torinese. Con loro vivevano anche la sorella e l'anziana madre di Giuseppe. Un impiegato municipale locale fornì documenti d'identità falsi per i Cytron.
    La situazione era densa di pericoli a causa della presenza costante di truppe tedesche e di molti collaboratori del regime nazista,e ben presto Giuseppe suggerì a David Cytron di trasferire la sua famiglia in un luogo più sicuro,presso propri parenti nello sperduto villaggio di Bogliano, dove li scortò di persona. David, sua moglie Ida (nata Tyktin) e la figlia Mariussa rimasero a Bogliano con i parenti di Giuseppe per diversi mesi. I loro ospiti non erano a conoscenza della loro identità ebraica.
    Un giorno Giuseppe venne a Bogliano e avvertì i Cytron che stavano per iniziare le perquisizioni. A quel punto, i Cytron decisero di unirsi ad alcuni parenti - Giuseppe e Tecla Cytron e la loro figlia Ruth - che si nascondevano nel vicino paese di Mezzenile vivendo in un caseificio, anche loro con i padroni di casa totalmente ignari della loro vera identità. Quindi, David, Ida e Mariussa presero un terno e tornarono a Lanzo dai Togliatto, che li tennero nascosti nella loro casa per circa un anno prendendosi cura di tutte le loro necessità, senza ricevere né chiedere alcun pagamento.
    Il 6 maggio 2012, Yad Vashem ha riconosciuto Giuseppe Togliatto e sua moglie Giuseppina (Favero) come Giusti tra le nazioni



(25 gennaio 2021)